E' lunedì, e quindi vi beccate un post da anziana che si lamenta della corruzione della società moderna.
Questo post vi è offerto dall'intervista al Presidente del Consiglio andata in onda ieri pomeriggio, in piena fascia protetta, a Domenica Live. Sto seriamente meditando di chiedere il divorzio per giusta causa a mio marito che si è rifiutato di cambiare canale. Il masochismo può essere anche divertente, ma solo se preso con moderazione e nel giusto contesto.
Ecco appunto, il contesto. Partirei proprio da qui perché, secondo la mia modestissima opinione da tuttologa, la perdita del contesto è alla base di molta parte della deriva odierna. Esempio (tipico da vecchia lamentosa): avete notato come si vestono i ragazzi per andare a scuola?
Attenzione: con questo non voglio dire che si debbano stabilire rigidi (e bigotti) codici di abbigliamento; ai miei tempi feci una sacrosanta battaglia contro le divise scolastiche in nome della libertà di espressione e dell'autodeterminazione dei popoli, e non intendo affatto rinnegarla qui e ora. Voglio dire che, come mi spiegava mia madre quando ogni mattina ispezionava la mia mise, la scuola è il luogo di lavoro degli studenti e al lavoro non ci si va con l'ombelico scoperto o l'elastico della mutanda che spunta dai pantaloni. Non si tratta di pruderie, ma di questa virtù ormai dimenticata che si chiamava "senso della proprietà". Se ti vuoi vestire male e in modo assurdo, sei liberissimo di farlo: ma non sul luogo di lavoro, dove c'è gente che appunto dovrebbe lavorare e non può farlo se sta ribaltata sulla scrivania a ridere.
(Il fatto che oggidì ci sia gente che effettivamente va a lavorare con l'ombelico scoperto e/o l'elastico della mutanda in vista non fa che confermare la mia tesi.)
Potremmo poi anche discutere del fatto che chi tuona contro l'abbigliamento dei ragazzi di norma se la prende solo con le femmine, come se i maschi fossero invece tanti piccoli lord Brummel in completo da passeggio. I pinocchietti da spiaggia con cavallo ultrabasso vanno bene, le minigonne no: si chiama double standard, è una gran minchiata misogina e sessuofoba ma esula dal tema di questo post e di lunedì mattina non sono in grado di gestirlo. Ne riparleremo. Per il momento sappiate solo che io sono politically correct e quindi me la prendo con tutti.
Torniamo invece alla mancanza di contesto con un altro esempio tratto dalla vita vera (la mia). Per varie vicissitudini che esulano pure loro e quindi non vi sto a spiegare, mi trovai un triste giorno a correggere i compiti svolti da studenti universitari di Lettere e Filosofia per un esame del corso di Giornalismo.
Vi invito a ponderare bene la situazione, dopo di che potrete inorridire con me del fatto che in molti di questi capolavori si trovava scritto "ke" (in luogo di "che") e "xké" (in luogo di "perché", che ve lo dico a fare).
Superato il raccapriccio, segnai tutto con la matita più blu che riuscii a trovare.
Perché c'è modo e luogo di usare le abbreviazioni convenzionali (io le detesto, ma capisco che in determinate situazioni possano venire utili: checché se ne dica, non sono una talebana), ma questo luogo NON E' né può essere un compito scritto ufficiale in una Facoltà di Lettere.
Badate che si comincia così, e si finisce con Barbara D'Urso e Matteo Renzi che si danno del tu chiacchierando amabilmente tra di loro, mentre al volgo beota (noi) non resta che applaudire e ridere a comando.
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