martedì 5 febbraio 2013

Logiche aristoteliche nello Stato pontificio

Che la Chiesa cattolica sia contraria alle nozze gay, o meglio all'estensione dei pieni diritti civili anche agli omosessuali (perché questo è), in fondo a me pare logico. Cioè: la logica conseguenza tratta da premesse sbagliate, ossia che l'omosessualità sia contro natura e contraria alla legge divina.

Tralascio qui tutte le considerazioni che potrei fare sul dilaniamento interiore a cui la Chiesa costringe, a causa di queste premesse sbagliate, chi è gay e credente. Mi concentro invece, appunto, sulla questione del matrimonio.

E ritorno alla logica (distorta) di cui sopra. Se la mia religione consacra il matrimonio, e sempre la mia religione crede che essere gay sia contro natura, allora è chiaro che non posso approvare né accettare i matrimoni gay.

Ma si parla, ovviamente, di matrimoni religiosi; sui matrimoni civili la Chiesa non ha titolo, né competenza, né diritto di dire o vietare alcunché. Au contraire, dato che ogni democrazia degna di questo nome riconosce uguali diritti a tutti i suoi cittadini (anzi, dovrebbe battersi per riconoscere uguali diritti a tutti i suoi cittadini), uno Stato che volesse dirsi democratico dovrebbe obbligatoriamente, di default, senza manco starci a pensare, rendere legittimi i matrimoni gay.

(Poi, è chiaro, il problema sta nel fatto che quando Bagnasco apre bocca Hollande manco se ne accorge, mentre qua noi stiamo già tutti a tappetino. L'altro giorno, celebrazione ufficiale in pompa magna dei Patti Lateranensi, con Napolitano e compagnia cantante. No, vabbeh.)

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